Italhope intervista coach Andrea Menozzi
Menozzi è da anni alla guida del settore giovanile reggiano, fiore all’occhiello di una delle società di vertice in Italia e che maggiormente crede ed investe sui giovani. Gli spunti di riflessione che ci ha concesso sono molteplici e spaziano dalla prospettiva di sviluppo di un giovane in Italia fino ai cambiamenti necessari per rendere il “sistema pallacanestro” maggiormente produttivo.
Che voto merita la pallacanestro giovanile italiana? Quali sono gli attuali pregi e quali i maggiori difetti?
Se dobbiamo dare un voto all’attività giovanile il voto è discreto, direi un 7, considerando la disponibilità di risorse, di strutture e l’educazione motoria di base dei ragazzi italiani. Se invece parliamo di come il sistema della pallacanestro italiana si occupa di sviluppare i giovani, il voto che ci meritiamo sfiora appena la sufficienza: siamo uno studente che ha delle potenzialità ma che non si applica a dovere.
Uno dei maggiori pregi che abbiamo è l’essere bravi nell’allenare le squadre e nel dare spazio al talento, soprattutto quando si evidenzia in età precoce. I difetti, invece, sono molteplici: siamo carenti sul reclutamento e sull’organizzazione in generale dell’attività; disperdiamo troppo il talento, infatti i giocatori più interessanti sono dispersi su troppe squadre; spesso i talenti più tardivi non riusciamo a riconoscerli né a metterli nelle condizioni di venir fuori e tendiamo a dare delle etichette troppo precocemente ai giocatori.
E’ corretto il tipo di gioco che si vede nei campionati giovanili? C’è troppo spazio per la tattica o pensa che sia giusto non imporre troppi divieti?
In generale sono contrario ai divieti ed è una convinzione che ho maturato negli ultimi anni vedendo gli effetti delle regole che sono state inserite nel corso del tempo. Penso che ognuno debba essere libero di perseguire, secondo le proprie convinzioni, il percorso che reputa migliore e questo rappresenta in generale un arricchimento dell’attività. Il problema è più di cultura che di regole: se non hai cultura trovi sempre il modo per aggirare le regole.Dal punto di vista delle priorità, spesso ciò che si evidenzia è l’attenzione più sull’idea di squadra che su quella dello sviluppo individuale dei giocatori. Bisogna uscire secondo me dalla dicotomia del giocare per vincere o giocare per produrre giocatori: in realtà l’idea di giocare per vincere ci deve essere, soprattutto per dare un’impronta di competitività ai giocatori.
Quanto è difficile per un allenatore di settore giovanile, al giorno d’oggi, rimanere fedele ai principi propri e societari a scapito di risultati immediati?
Per un allenatore, senza una solidità societaria alle spalle, è difficile fare qualsiasi cosa. Credo che questa situazione sia più delicata per i giovani giocatori, che oggi sono esposti maggiormente ad attenzioni e pressioni esterne rispetto al passato. Mentre un allenatore, se sa quello che deve fare, lo fa a prescindere da tutto il resto.
Se potesse mettere mano liberamente al movimento giovanile italiano, quali sarebbero tre cose che cambierebbe fin da subito?
Qui è necessaria una premessa: questo è uno dei grandi limiti degli interventi che sono stati fatti fino ad oggi: si è sempre cercato di aggiustare, mettendo a posto un pezzettino alla volta, senza avere una visione d’insieme sia dell’attività giovanile sia di come il sistema pallacanestro in Italia permette/non permette, aiuta/non aiuta lo sviluppo di giovani giocatori. Fatta questa premessa, cambierei innanzitutto il calendario annuale: dobbiamo giocare meno e fare un’attività più qualificata ed adatta, perché in questa fascia d’età dobbiamo avere la priorità di costruire i giocatori dal punto di vista fisico e svilupparne le abilità. Questi due obiettivi, specialmente il primo, richiedono una periodizzazione durante la stagione e nel corso delle stagioni che purtroppo con, i calendari attuali (fatti da tante partite, tanta attività, impegni con la Nazionale, esigenze delle prime squadre, etc…), sono difficilmente perseguibili. In secondo luogo dobbiamo allungare la prospettiva, perché noi ci focalizziamo su quello che sono e che sono in grado di fare i ragazzi quando hanno 17-18 anni. A 17-18 anni li consideriamo già come un prodotto finito, dando delle valutazioni e delle etichette, mentre in realtà secondo me il punto d’arrivo, ragionato e ragionevole, per quello che è lo sviluppo di un giocatore è da spostare fino a 22 anni. La terza cosa necessaria, anche se è un aspetto poco romantico, è migliorare la premialità economica per chi recluta i giocatori, per chi li sviluppa e per chi li fa giocare. Legato a questo è necessario ripensare e ridefinire il concetto di vincolo a livello giovanile, diventato ormai anacronistico e che rischia di essere in tanti casi deleterio e controproducente.
In questa stagione ben tre dei vostri giocatori (Mussini, Stefanini e Binelli) hanno deciso di andare negli States: oltre all’esperienza umana, cosa spinge questi ragazzi a fare una scelta del genere?
Come esperienza di vita la trovo fondamentale ed importantissima e, parlando da adulto, credo che sia un qualcosa che questi ragazzi si ritroveranno anche come giocatori di pallacanestro: lo sviluppo di un giocatore non si può scindere dalla crescita personale di un ragazzo. Credo però che questo fenomeno, in netto aumento e che rischia di diventare una routine, sia la conseguenza della nostra incapacità di proporre ai ragazzi nella fascia 18-22 anni un qualcosa di altrettanto significativo e importante.
Nella vostra prima squadra giocano due stranieri cresciuti nel vostro settore giovanile (Silins, arrivato nel 2008, e Strautins arrivato nel 2014). Quali sono le caratteristiche che differenziano un giocatore straniero da uno italiano?
Per quella che è la mia esperienza non vedo differenze in assoluto, perché ormai i ragazzi europei si somigliano tutti: finché non li senti parlare è complicato capire se un giocatore è italiano o straniero. Le differenze le vedo più a livello individuale, ma questo succede anche tra i ragazzi italiani. E’ pur vero, però, che nel momento in cui un ragazzo straniero decide di cambiare nazione per seguire la propria vocazione questo fa la differenza, ma la fa allo stesso modo per un ragazzo italiano che decide di trasferirsi per seguire la propria vocazione: questo è un indicatore di un certo tipo sulla voglia di arrivare e di sacrificarsi da parte di un giovane. E’ un dato di fatto che all’estero sia più facile trovare ragazzi che abbiano un fisico adatto alla pallacanestro e c’è da dire che per le società è più semplice, anche dal punto di vista strettamente economico, reclutare ragazzi stranieri. Penso che il trasferimento dei giovani giocatori a livello internazionale sia una tendenza naturale, da governare con intelligenza e responsabilità.
La Pallacanestro Reggiana, come molte altre società di livello, non si è iscritta al Campionato U20 Eccellenza. Quanto crede sia stato utile il passaggio dalle categorie dispari a quelle pari avvenuto in questa stagione?
Nella sostanza è ininfluente, ma onestamente non se ne sentiva l’esigenza. Per quanto riguarda la mia società, è stata una situazione assolutamente controproducente dal punto di vista dei modi e dei tempi, avendo avuto un preavviso minimo, ed è stata deleteria per la nostra programmazione. Noi abbiamo deciso di non disputare il campionato Under 20 Eccellenza perché, dal punto di vista della programmazione tecnica e di sviluppo dei giocatori, non eravamo nelle condizioni di poterlo fare. Un cambiamento del genere, attuato nel giro di 6 mesi, ha generato una situazione critica dal punto di vista della programmazione. Quindi il problema non è stato nella sostanza ma nei tempi e nelle modalità di attuazione.
Tra i maggiori campionati senior europei, la lega italiana è una delle peggiori per utilizzo di giocatori Under 22. Quali sono le maggiori difficoltà che incontrano i giovani in Italia nel passaggio dalle categorie giovanili a quelle senior?
Ricollegandomi a quanto detto in precedenza, il nostro errore è valutare come prodotto finito un ragazzo di 18 anni. Affacciandosi ad un campionato senior professionistico, la situazione è quella di un ragazzo che deve giocarsi il posto con giocatori stranieri che hanno almeno 23-24 anni e che vengono da un’esperienza in un campionato vero, praticamente “professionistico”, come quello del college oppure in campionati professionistici veri come le leghe dell’est. Perché in NCAA, oltre a studiare, vivono come dei professionisti, facendo attività full time e giocando un campionato di buon livello. Questi giocatori arrivano in Italia con almeno 3/4 anni di esperienza in una competizione di questo tipo e magari anche dopo aver giocato in campionati minori in giro per il mondo. E’ dura, per i nostri giovani, giocarsi il posto in questo modo, non mi sembra che siano nelle condizioni per giocarsela alla pari. Poi c’è ovviamente qualche eccezione, ma non dobbiamo fare i conti sulle eccezioni, noi dobbiamo costruire un sistema che funzioni bene per il maggior numero possibile di ragazzi e non su alcune eccellenze. Non voglio essere frainteso, non intendo dire che i giovani italiani debbano avere un percorso privilegiato; tutt’altro, devono essere ben consapevoli che quasi tutto dipende da loro, da quanto valgono e da quanto s’impegnano. Dico che devono essere posti nelle condizioni di giocarsela ad armi pari. Mi sembra che anche il mondo del calcio si stia interrogando sugli stessi temi, ad esempio con la riflessione sulle “seconde squadre”.
Quanto conta per un coach di Serie A avere alle spalle una società solida con un certo tipo di programmazione, che incoraggi e creda nell’utilizzo dei giovani?
Io penso che gli allenatori abbiano una grossa responsabilità e grandi meriti quando scelgono di affidarsi ad un giovane ma, al momento, è indispensabile e imprescindibile avere alle spalle una società che per scelta, necessità, programmazione o altri motivi sposi e porti avanti una politica incentrata sui giovani.